Un padre costretto a fare ciò che non vorrebbe e suo figlio di dieci anni che scopre una verità che da anni l’uomo nasconde a lui e a sua madre. Tutto in una Palermo contemporanea e, in quel determinato contesto, degradata. A raccontare il loro rapporto forte che inevitabilmente si incrina è Il bambino di Vetro, opera prima per il cinema del regista teatrale Federico Cruciani, unico film italiano in concorso ad Alice nella Città, liberamente ispirato al libro Figlio di Vetro di Giacomo Cacciatore (Einaudi). Lo abbiamo visto e ne abbiamo parlato direttamente con il regista e con il protagonista Paolo Briguglia.
Cruciani, la prima impressione vedendo il film è subito quella di un titolo che contrasta con il contenuto…
Questo contrasto di cui parli e che hai percepito tra un titolo che suona leggero e la storia molto dura che racconta lo ritengo davvero bello. Il vetro in questo caso non è soltanto un richiamo al fragile, anche se c’è anche quello perchè comunque un bambino di 10 anni anche se cresce in un ambiente molto duro ha una sua fragilità, ma è anche il cognome della sua famiglia, di suo padre, quindi già nel titolo troviamo questa ambiguità che è uno dei filoni del film: il bambino di vetro può essere lui, Giovanni, o anche l’altro che scopriamo alla fine.
L’ambiguità quindi è il filo rosso di tutto il film
L’ambiguità è ovunque, anche nel personaggio del padre, Vincenzo, un uomo che tiene nascoste tante cose, che ha un grande segreto, ma non è un cattivo, piuttosto una persona che vuole forse proteggere il figlio dalla sua stessa doppia vita, ha un rapporto profondo con il figlio e ama la moglie, però poi è costretto a fare ciò che fa trovandosi in un vicolo cieco e reagisce in maniera animale, e Paolo Briguglia è stato molto bravo a rendere tutto questo. L’ambiguità è anche nel personaggio del signore che sta nella finestra di fronte che Giovanni guarda con il binocolo e con cui forse sostituisce il padre, un personaggio che nelle precedenti sceneggiature era anche più spinto e mi piacerebbe che al pubblico venisse un brivido nell’osservarlo e nell’avvertirlo non proprio come un amico e un rifugio confortevole e sicuro, ma piuttosto anche lui come un pericolo latente. Ma ne succedevano già tante al bambino che non abbiamo voluto spingere troppo sul nero. Anche il finale poteva essere più tragico ma abbiamo frenato.
Paolo Briguglia, chi è Vincenzo e che padre è?
Vincenzo è un pover’uomo che viene da un ambiente sociale della Palermo delle periferie, delle speculazioni edilizie, delle macerie, della sporcizia, un po’ in abbandono. Però lui cerca di tenersi pulito e questo lavoro che fa lo fa perché per tenere in piedi queste due vite gli servono tanti soldi. L’altro figlio è un incidente di percorso, ma la sua è una famiglia di criminali, così è costretto a portare la droga dentro al pesce, ma si tiene un po’ a distanza, si capisce che non vuole fare il criminale, non ci tiene per niente, ma ci si trova in questa situazione. La persona cui si aggrappa di più è proprio suo figlio. Lui vorrebbe tenere la vita in equilibrio, invece la vita gli cade addosso. E alla fine, come accade nella vita vera, non esiste un dialogo che spiega le cose, ma la tragedia rimane dentro e lascia questi due personaggi a vedersela con loro stessi.
Paolo, come definiresti questo film?
Molto coraggioso, un film che ti lavora dentro e che sta molto stretto sui personaggi e sulle performance degli attori.
Di solito fai sempre il buono che sta dalla parte giusta…
Infatti per me Vincenzo è stato un personaggio molto sofferto e la formula che ho trovato è quella dei vinti verghiani immersi nel melodramma, proprio per questo il regista Cruciani ha voluto inserire dei brani d’opera. A me interessava che venisse fuori questa profonda umanità innata del personaggio che però è espressione di una classe sociale dove non c’è un linguaggio dei sentimenti e della parola, non c’è la capacità di relazionarsi e di chiedere scusa, sono tutti più brutali e così anche lui quando non sa che fare afferra: afferra la moglie, afferra il figlio, tutto ciò che riesce a fare è gridare, e io ho dovuto combattere con la mia formazione e la mia appartenenza per renderlo così, e per me è stata una sfida enorme.
In questa Palermo la mafia si intuisce, ma non è protagonista come in molte fiction, ad esempio..
C’è una criminalità e sullo sfondo ci sono la mafia e le famiglie, ma non era quello che voleva raccontare questo film. Questa più che quella raccontata nei film e nelle fiction di mafia è più una Palermo contemporanea dove esiste anche il degrado, ma come in tante altre città, ed è la mia Palermo.
Cruciani conferma?
Palermo certo è anche questo ma non solo, come tutte le altre città ha i suoi posti meravigliosi e anche una realtà come questa che a a me piaceva indagare.
E il piccolo Vincenzo Ragusa che interpreta Giovanni viene proprio da questa Palermo… ci racconti come l’hai trovato?
Un anno prima delle riprese ho fatto un lavoro di casting personale visitando vari quartieri e casualmente, passeggiando per un vicolo, ho visto questo bambino che allora aveva nove anni che si relazionava con un adulto di sessanta e mi ha scioccato per la sua spavalderia e il suo carattere forte, un ragazzino che nella sua fase preadolescenziale non è ancora rovinato dal contesto e trattiene ancora una forma di innocenza, ma già avverti che la perderà in una maturazione precocissima dovuta a quello stesso contesto. E questo sarà il soggetto del mio prossimo film.