Firenze, 2000. Oriana Fallaci racconta la sua vita a Lisa, giovane archivista e aspirante giornalista pure lei che l’ammira e adora come una dea. Un personaggio inventato, un espediente per far andare avanti e indietro la storia della giornalista-scrittrice fiorentina e rivelarne subito il carattere ispido che “per fare una buona intervista devi essere spietata” le dice. Per il resto L’Oriana, stasera e domani su Rai 1 , è tutto vero.
“Abbiamo attinto fondamentalmente dalle sue opere che sono poi la sua vita – spiega il regista Marco Turco – perché una delle caratteristiche di Oriana Fallaci è l’aver raccontato il ventesimo secolo raccontando la sua vita e inventando il suo modo personale di fare giornalismo in un periodo in cui per una donna era un mestiere molto difficile”.
Prodotto da Fandango TV e RAI Fiction e scritto da Stefano Rulli e Sandro Petraglia, L’Oriana vede protagonista un’altra fiorentina nonché musa di Turco, Vittoria Puccini, che in comune con la Fallaci ha in effetti ben poco:
“giusto Firenze e la faccia – ci dice l’attrice – perché lei era una donna difficile con cui era difficile avere a che fare, dura e spigolosa, ma molto affascinante”.
Anche lei ci sembra un po’ vittima di quel fascino…
“Sì e soprattutto mi affascina questa sua contraddizione tra un desiderio di diventare madre e costruirsi una famiglia e la reale impossibilità di farlo perché voleva dedicare la vita al suo lavoro, senza però negarsi passioni intense, struggenti e faticosissime con gli uomini della sua vita. E ammiro il suo coraggio che l’ha vista mettere a rischio la sua stessa vita per andare nei posti caldi a documentare ciò che accadeva”.
Diretta nelle sue domande come quando nel 1954 chiede a Gina Lollobrigida se non fosse “immorale prendere milioni per un film?”, così come nelle altre sue interviste ad attori e registi in quel paese chiamato America con il quale fu subito amore. Ma poi basta perché lei vuole parlare di donne e girare il primo reportage sulla condizione femminile nel mondo e per farlo “ho solo bisogno di un biglietto aereo lungo come una fisarmonica” dice al capo.
In Pakistan però non riesce neanche a parlarci con una donna, finché non si imbatte in un triste matrimonio combinato, con la sposa che piange sotto il velo perché non lo conosce lo sposo e “come ti sembra?” le chiede, e lei scrive del burka come di una prigione e che “nel regno sterminato dell’Islam le donne valgono meno di un cammello”.
Poi a Saigon in piena guerra del Vietnam dove “le ragazze fanno affari d’oro con i soldati” le spiega Francois Pelou (Stephane Freiss) della France Press e sarà uno dei suoi grandi amori, ma poi “il finale – racconta a Lisa – non fu all’altezza della storia, lui non lasciò la moglie e io le spedii tutte le sue lettere e non mi pento”. Stare ai margini non le basta così va al fronte con le pillole per l’acqua, l’elmetto e tutto il resto, a scrivere in trincea dei soldati americani come Harry, “volontario del cazzo” dice di se stesso, che si è pentito ma è troppo tardi, e ci riesce a intervistare i tre Viet Cong prigionieri del generale Loan, due sono donne e una le dice che ha un figlio di un anno che le manca. E all’orfanotrofio dove i maschietti non si possono adottare che saranno dei soldati, le dicono le suore mettendole in braccio una bambina dopo l’altra sperando che se le porti via.
Nel 73 è in Grecia a intervistare Alexandros Panagulis (Vinicio Marchioni), poeta greco rivoluzionario appena scarcerato dopo 5 anni di torture per un attentato fallito contro il regime dei colonnelli e il dittatore Papadopoulos e “sono più le volte che è sgarbato, oppressivo e litigioso di quelle in cui si mostra cordiale e affettuoso” scriverà di lui in Un uomo, lui che quasi gli dà un figlio di cui si accorge a Hong Kong e “stanotte ho saputo che c’eri, una goccia di vita scappata dal nulla” leggeremo nella Lettera a un bambino mai nato. Perché quel figlio lo perde scoprendo il tradimento del suo uomo, ma non lo lascia fino a che lui non muore perché “lo avevo amato come non avevo mai amato nessuna creatura al mondo e come non avrei mai amato nessuno”.
Si deve vestire di nero e coprire la testa per intervistare l’imam Komehini nel settembre del 79 in Iran “ma perché – gli chiede infervorata – le donne devono portare il chador anche al mare, ma come si fa a nuotare con il chador?” e “il chador è per le donne perbene” risponde l’Imam.
E poi a fare i conti con il cancro, di cui parla pure in televisione e “io la morte la odio – rivela – la morte è uno spreco, amo la vita disperatamente”. Poi il silenzio fino all’11 settembre che le scatena quella “rabbia, fredda, lucida e razionale” contro l’Islam. Lei sta a New York quando accade e “qui è in atto una guerra di religione che chiamano Jhiad e che se non ci si oppone, se non si combatte, vincerà e distruggerà il mondo” scrive in un articolo che diventerà bandiera, che susciterà polemiche, come i suoi discorsi sulla società occidentale incapace di difendersi, quelli che riaffiorano di tanto in tanto a giustificare la paura e l’odio, come in questo nostro post-Parigi a definirli “profezie”.
Ma perché non ce n’è traccia nella versione cinematografica passata nelle sale il 2 e il 3 febbraio?
“Non volevamo entrare nell’ambito delle polemiche perché non compete a un film – ci risponde Turco – abbiamo quindi raccontato solo ciò che lei ha detto e credo che, soprattutto alla luce di quanto è accaduto a Charlie Hebdo, la cosa importante è che ognuno deve avere il diritto di dire quello che pensa, anche se può essere considerato un estremista”.
Nella versione televisiva più lunga però c’è qualcosa in più a riguardo
“Sì, c’è una scena in cui raccontiamo la contraddizione finale della Fallaci in cui interagiscono una lei giovane e una lei anziana, in cui la prima chiede all’altra: ‘ma come fai a dire che i musulmani sono tutti terroristi? Sembri più integralista degli integralisti’. Ma anche lì non ci siano inventati niente, abbiamo preso la scena dal suo ultimo libro in cui intervista se stessa”.