In carcere non si sta bene. Questo si sa. E allora se ci devi stare, a qualcosa per sopravvivere ti devi attaccare. È quanto racconta Mala Vita, il corto diretto da Angelo Licata che dalla piattaforma web Ray, stasera sbarca in TV, su Rai3 alle 22.45.
Ispirato al racconto Pure in galera ha da passà ‘a nuttata del detenuto Giuseppe Rampello, vincitore nel 2013 del Premio Goliarda Sapienza dedicato ai detenuti italiani e edito da Rai Eri nella raccolta Mala Vita, e prodotto da RaiFiction con il patrocinio della Presidenza del Consiglio, del Ministero della Giustizia e del MiBACT, vede protagonisti Luca Argentero e Francesco Montanari, che fa pure teatro terapia ai detenuti con il regista Luciano Melchionna perché “c’è tanta necessità di fare spettacolo lì – dice – ed è come si dovrebbe fare realmente questo lavoro”. Girare nell’ex complesso carcerario torinese Le Nuove che oggi è un museo, ad Argentero ha fatto una certa impressione: “non ero mai stato in un carcere prima – rivela – e mi ha fatto venire la voglia di non finirci mai”. Mala vita è solo il primo frutto di una collaborazione con il Premio Goliarda Sapienza, fa sapere il capostruttura a Rai Fiction Pino Corrias che annuncia: “il prossimo sarà un corto su una giornata di libertà di una detenuta”. Tutti i proventi derivati dall’opera, fa sapere la produzione, saranno devoluti a beneficio di progetti volti al miglioramento delle condizioni carcerarie.
Ecco la storia. Antonio (Luca Argentero) dalla prigione entra ed esce, è un truffatore nato e manipola le sue vittime fingendosi chi non è e parlando diversi dialetti a seconda della situazione, per questo lo chiamano il camaleonte. Ad esempio all’ispettore siciliano che gli chiede come mai sia tornato ancora, in siciliano risponde che “si sbagliarono come l’altra volta”, mentre alla psicologa che è torinese parla in piemontese e per intenerirla le racconta pure che è stato adottato e che Torino “è l’unica città che posso definire veramente casa”, sussurra. Ma questo suo fare apparentemente sicuro e disinibito si sfalda e crolla davanti all’eventualità che non possa avere la “sua” cella, quella di sempre. Perché “le celle non sono tutte uguali, ci devo rimanere 4 anni qua dentro e quel letto è casa mia” dice Antonio all’amico con la scritta risurrezione tatuata sul petto, che però lo avvisa che “mi sa che hai fatto una cazzata, fatti cambiare cella”.
Il suo letto infatti, quello di sopra dei due letti a castello, è proprio davanti alla finestra da dove Antonio sa di poter guardare fuori, dove c’è lo stesso albero e magari ritrova pure lo stesso nido, ma “quel letto adesso è mio” gli ringhia Don Rocco, boss della camorra. E quando Antonio tenta di dargli a bere che faceva il capozona di Forcella, parlando in napoletano si intende, quello lo fa pestare dal compagno di cella tunisino, peraltro dietro minaccia della sua famiglia, perché Forcella è zona sua e “ci stanno tanti fetenti a questo mondo – sentenzia il boss – ma i peggiori sono quelli che non dicono la verità”. E poi perché era uscito l’asso di bastoni…
Già, perché Don Rocco controllerà pure mezza Napoli, ma se fare ricorso o meno contro i tre anni di condanna che si è beccato se lo fa dire dalle carte che è convinto che “le muove Dio e se te le fai da solo non funziona”. Così gliele fa Antonio ed ecco l’asso di denari che vuol dire “fortuna, felicità, riuscita in tutte le imprese” grida Rocco, così chiama la guardia e va da qualche altra parte a fare il ricorso. Non ci torna più in quella cella per motivi che non sveliamo, e Antonio adesso ha di nuovo il suo letto per guardare l’albero e il nido fuori dalla finestra e sorridere, anche in carcere.