Narra la leggenda che Rea Silvia, figlia del re spodestato di Alba, ebbe dal Dio Marte due gemelli che chiamò Romolo e Remo, ma lo zio dei pargoli, lo stesso che aveva cacciato dal trono il fratello, per paura che un giorno potessero reclamare il regno, li fece abbandonare sulle rive del Tevere dove una lupa li trovò e li sfamò con il suo latte, per poi lasciarli ad un pastore che li allevò finché, adulti, non uccisero l’usurpatore rimettendo il nonno sul trono per poi fondare una città tutta loro proprio lì dove erano cresciuti. Per quanto i protagonisti siano proprio Romolo e Remo, nulla di tutto ciò dovete aspettarvi da Il Primo Re, il kolossal di Matteo Rovere che dopo il successo di Veloce come il vento ci lascia tutti a bocca aperta con un film così vero che sembra impossibile sia tratto da una leggenda, e quindi con nessun documento o testimonianza cui attingere un minimo di verità. Perfetta ed estremamente accurata e realistica invece la ricostruzione del Lazio, dove il film è stato interamente girato tra paludi, montagne, fiumi, saline e spiagge, così com’era in epoca prelatina, ovvero nel 735 AC, anno in cui è collocata la vicenda, e non lo diciamo noi bensì gli archeologi dell’Università di Roma Tor Vergata chiamati a verificare il tutto, armi e manufatti compresi. Al tocco di classe e d’occhio ci ha pensato la fotografia di Daniele Ciprì. Così come è perfettamente quella del film la lingua che si parlava all’epoca, ovvero il protolatino, un latino antico che l’intero cast snocciola con disinvoltura come non avesse mai parlato in altro modo in tutta la vita. Già, perchè Il Primo Re è servito in sala dal 31 gennaio con 01 Distribution in lingua, per così dire, originale: tranquilli, ci sono i sottotitoli. Che magari distolgono un po’ l’attenzione dalla scenografia e dalle espressioni dei protagonisti, ma rende il tutto ancora più realistico.
Come dicevamo però Il Primo Re non parte dalla nascita e dall’abbandono dei due neonati, la madre peraltro si intravede per pochi secondi quando loro sono già grandi, e tutto comincia da una violenta esondazione del Tevere che li trascina via dai loro luoghi con tutte le pecore che Remo stava accudendo mentre Romolo pregava gli dei di far smettere di piovere: come dire, quando ti danno retta. Da lì dunque potremmo dire che inizia la vita adulta dei due ragazzi magnificamente interpretati da Alessandro Borghi che, reduce da Suburra La serie dove lo rivedremo presto per la seconda stagione e dal toccante Sulla mia pelle dove ha ridato vita a Stefano Cucchi, è il rabbioso, coraggioso, ostinato Remo, pronto a sfidare gli Dei se il loro volere, espresso per bocca della vestale Satnei interpretata da Tania Garribba, è la morte per sua stessa mano di suo fratello; e da Alessio Lapice, che si è fatto ben notare in Nato a Casal di Principe, che è il più riflessivo e cauto, ma non per questo meno impavido Romolo, che comunque riaccende il fuoco sacro e alla fine avrà la meglio. La lotta per il potere, e quella interiore tra l’uomo e il suo stesso io, perché in fondo i due gemelli questo sono, l’uno l’opposto dell’altro ma sempre una persona sola, frasi come “il potere si regge sulla paura”, brandelli di popoli in cerca di un luogo dove stare e di qualcuno che li guidi, sangue e violenza, lotte fratricide e tra differenti etnie, ci fanno pensare che forse non è cambiato poi tanto da allora e che in tutto ciò “anche lo spettatore di oggi si può riconoscere – dice infatti Matteo Rovere – in due fratelli gemelli con una visione diversa del rapporto con la divinità, una più laica e una invece più devota, il bisogno di trovare una terra, l’idea di una civiltà nata da un fratricidio, sorta su un dolore profondo, formata da tribù diverse e da emarginati e apolidi in cerca di un posto dove costruire una capanna“.
Non è un film storico Il Primo Re e neanche un peplum, non è un docufilm e tanto meno un fantasy, Il Primo Re è Il Primo Re, un film che così non era mai stato fatto e che seppure non siete di Roma vi invitiamo a non perdere perché racconta una storia che può essere di tutti, tra il reale e l’immaginato, il tramandato e il narrato: “ci siamo sentiti liberi di raccontare una storia d’avventura, un mito seppure nell’estremo realismo – spiega ancora il regista – volevamo fare film storico che non era mai stato fatto prima con una storia che è alla base della civiltà occidentale. Questo mondo antico, violento e respingente che rappresentiamo – continua Matteo Rovere – parla all’uomo di oggi per mezzo della dimensione emotiva di questi due fratelli e dal loro diverso atteggiamento verso il destino e le divinità, perché ancora oggi che ci e viviamo con la scienza e la tecnologia, sentiamo ancora il richiamo dell’inconoscibile e dell’ignoto, senza contare il prologo della fondazione di Roma con il quale finisce il film è in realtà un ragionamento sull’imperialismo e sulla società che vale ancora oggi“. Per ascoltare e vedere i due protagonisti invece ecco il nostro videoincontro con Alessandro Borghi e Alessio Lapice: