Clementina, Alexia, Madame X, Diana, Tatiana, Laetitia… sono solo alcune delle donne trasformate in immagini ferme nel tempo dopo averne seguito o inventato un movimento e un’intenzione, testimoni, e al tempo stesso artefici, di un attimo fuggente e immortale. Loro, le donne, incontrate o sognate, e le città, visitate, vissute, amate, sono le protagoniste di Fuga, la mostra del fotografo brasiliano Marcio Scavone inaugurata ieri nelle sale dell’Ambasciata del Brasile a Roma, dove resterà fino al 13 settembre. Le fotografie, tutte in bianco e nero, che ritroviamo anche nel libro omonimo, fondendosi reciprocamente in immagini e pensieri, raccontano delle vere, piccole storie che sanno di poesia. Così come poesie brevi sono le didascalie che Marcio Scavone dedica a ognuna di loro.
Ci accoglie subito, entrando alla mostra, il fermo immagine un po’ sfocato dal movimento catturato di un’utilitaria dal titolo deciso, ovvero Questa città ha bisogno di me: “La Fiat 500 ha accelerato contro le leggi del codice romano – si legge nell’ironico racconto breve che l’accompagna – ha tracciato un arco nell’antico Foro, è schizzata via lungo via degli Annibaldi, ha lanciato un ultimo sguardo al Colosseo, e ha clacsonato salutando tutti coloro che sarebbero morti nel traffico”.
A Roma sono dedicate diverse opere fotografiche di Marcio Scavone, Battaglia di periferia la mia preferita, così come la sua piccola storia: “Chiedi informazione su una via a un romano e guardalo bene negli occhi. La spiegazione ti arriverà in forma di favola, storia o perfino dipinto. Ti dirà: sarà una camminata bellissima. Deve essere così perché a Roma i bambini crescono tra affreschi e panni stesi. Poi, una volta adulti, fanno fatica a distinguere le moltitudini di turisti dalle invasioni barbariche”.
C’è poi La notte borghese che guarda a Piazza del Popolo dove “Nerone, il più tiranno degli imperatori romani, lì morì e venne sepolto… Nel bar dell’Hotel Hassler sogniamo gli strati della Città eterna, uno ad uno, pagine e pagine di tempo”. Poco più in là sul muro bianco, ovvero “su una guado del Tevere” troviamo Giano e il cane a tre teste. E poi possiamo seguire La via lattea, su, in alto, sul soffitto tondo del Pantheon, dove “nei seni, ora di carne ora di pietra, ho riposato il mio corpo“.
Non manca New York con Alexia e la privacy che racchiude in sè e nella sinossi che la riguarda, una sorta di vademecum dell’intera mostra: “… Alexia era seduta su una di quelle panchine del marciapiede della 5th Avenue, di spalle al museo e al parco. Nella foto, la vediamo scrutare attraverso la finestra del loft di un fotografo nel Soho, anche se, in verità, non ha mai lasciato quella panchina di spalle al Central Park“. Ecco dunque il movimento che non c’è, se non nella fusione delle immagini e nel pensiero dell’artista. Altra piccola lezione, quella elargita da Clementina alla finestra: “In fotografia i corpi e gli oggetti avvertono la loro mutua presenza nell’equilibrio delle forme e nella danza permanente tra luce ed ombra“.
Ed ecco Londra, Città del Messico, e Parigi con il suo meraviglioso e suggestivo cimitero e con Isabelle e la sua ode: “una lapide viva dei sogni che sono morti… Là, nel paesaggio incolore del Père Lachaise, tu eri quella che era morta per tutti, ma non per me”. C’è anche Tokyo time, ancora un’auto su una strada, meno vincitrice dell’altra, bensì in lotta con il sonno, il sogno e con il tempo: “Sono stato sonnambulo a Tokyo – racconta Scavone – Non sapevo mai se ero sveglio o stavo sognando. Cacciavo immagini che correvano contro il tempo che mi guardava camuffato da sveglia. Quando, sfinito, cadevo sul tatame, tappeto magico, con la cetezza che lì, sì, sarebbero stati sogni“.
E non potevano non esserci le città della sua terra, San Paolo e Rio de Janeiro: Splendida culla tra le immagini più spettacolari di Fuga, forse quella cinica, dove su un tappeto di fitte favelas, un telo di sabbia steso ospita le donna al sole: “Ogni brasiliano ha diritto a uno splendido luogo di nascita – scrive Marcio Scavone – Dopotutto, ciò risulta chiaro anche nel testo dell’inno Nazionale. Dicono che la sabbia delle spiagge di Rio De Janeiro sia democratica. Un minimo di abbigliamento e tutti sono uguali. Mentre camminavo sulla sabbia scottante di Ipanema, ero spaventato dall’immagine della bagnante accomodata nel pensiero della favela lontana“.