Prendi il Decameron di Giovanni Boccaccio, quel libro “cognominato prencipe Galeotto nel quale si contengono cento novelle in dieci dì dette da sette donne e da tre giovani uomini” per citare l’incipit dello stesso poeta di Certaldo, scegline cinque di novelle, raduna un cast numeroso che di meglio forse oggi in Italia non c’è, dì a tutti che sì, siamo nel Medio Evo, ma ognuno reciti com’è, ed ecco Maraviglioso Boccaccio, il nuovo, corale film di Paolo e Vittorio Taviani, dal 26 febbraio nelle sale, 100 per la precisione, proprio come le novelle del Decameron.
Solo cinque dunque ne hanno scelte i due registi con un criterio abbastanza preciso: “ne avevano in mente molte – spiega Vittorio Taviani – ma per il nostro film dovevano avere tre pulsioni, una riflessa nell’altra: quella dell’orrore della vicenda umana di ieri e di oggi, quella di questi giovani che stanno per dire di non aver più voglia di vivere e invece poi vogliono farlo, e la fantasia che ci aiuta a revocare immagini raccontando quello che gli uomini possono fare di grande, di bello e di osceno e dove l’amore è quello che ‘move il sole e l’altre stelle’”.
Ma perché Boccaccio e perché la peste? “Perché parlando degli orrori che ci sono oggi nel mondo – risponde Paolo Taviani – queste rappresentazioni orrende di uomini vestiti di arancione vicino agli altri vestiti di nero pronti a sgozzarli e il mare che poi diventa rosso, e le onde alte otto metri che uccidono centinaia di ragazzi che vengono dalla Libia e questo clima che c’è nel nostro paese che il 40% degli italiani ha dichiarato che non voterà perché c’è crisi, dolore e sofferenza ‘ecco, la peste è tornata’ ci siamo detti, sebbene in forma diversa. E c’è tornata in mente la peste di Boccaccio con cui inizia il Decameron e poi si sono accavallate altre immagini, come i ricordi delle nostre nonne dell’epidemia della spagnola”.
Dunque, nella Firenze del 1348 colpita dalla peste i morti sono talmente tanti che vengono accatastati sui carretti e gettati in enormi fosse comuni da ricoprire subito con la terra per evitare ogni ulteriore diffusione del virus. Ma soprattutto a dilagare oltre alla febbre alta, le piaghe color vinaccio sulla pelle e la morte, è la paura, quella gran paura di venire infettati da un amico, un fratello, una moglie, paura che distrugge ogni rapporto, ogni forma di amore, che ti fa persino allontanare chi invece in quel momento ha ancora più bisogno di te fino ad abbandonarlo, basta che stia lontano da te. In questo clima anche qui, come nel Decameron, sette ragazze seguite da tre ragazzi scappano dalla città e dalla peste per rifugiarsi in una villa cercando di non morire, e per continuare a vivere diventano tutti un po’ contadini, si fanno il pane da soli e ogni giorno uno di loro racconta agli altri una novella e i protagonisti via via prendono forma.
Come Catalina con la faccia dolorante di Vittoria Puccini, che si ammala di peste e viene abbandonata dal marito Nicoluccio, uguale a Flavio Parenti, a morire in una cripta, ma poi arriva Gentile, di nome e di fatto, tale e quale a Riccardo Scamarcio, che l’ama da sempre di nascosto e che la salva e l’amerà per sempre.
E come Ghismunda che è bella come Kasia Smutniak, vedova di un marito già vecchio impostole dal padre Tancredi, arcigno come Lello Arena quando è arcigno, che si innamora del giovane di bottega Guiscardo, un tipo alla Michele Riondino, ma il padre li becca e non la prende bene. “È il terzo film che faccio con i Taviani (dopo Tu ridi nel 98 e Luisa San Felice nel 2004 ndr) e faccio sempre assassini terribili – dice Lello Arena – sono un po’ preoccupato perché se è vero che tutti in questo film portano se stessi, diventerò presto un killer seriale. Tancredi è stato una bella rogna, è un personaggio complicato che si muove attraverso zone cupe dell’animo umano e renderlo umanamente ragionevole è stato un po’ difficile. Ma era uno sporco lavoro e qualcuno doveva pur farlo”.
Poi c’è la Badessa Usimbalda, dapprima severa e poi tutt’altro, credibile anche con un paio di mutandoni in testa come solo Paola Cortellesi potrebbe esserlo, che ci prova a rimproverare Suor Isabetta che, bionda e languida come Carolina Crescentini, si porta un uomo in cella, ma poi la carne è carne, è la morale. “Quando i Taviani mi hanno chiamato parlandomi di un personaggio che potevo fare solo io – racconta la Cortellesi – mi sono sentita felice e orgogliosa, poi quando ho letto sul copione che era una con le mutande in testa, ho capito che tutto tornava… Nelle novelle del Boccaccio ci sono storie molto belle, importanti e contemporanee, nella mia in particolare anche qualcosa di prezioso. I ragazzi trovano il loro riscatto dalla paura e tornano ‘a riveder le stelle’ dopo aver affrontato quelle loro paure attraverso la comunicazione, che è qualcosa che oggi manca e che invece potrebbe essere la soluzione a tantissimi mali, anche intesi come accordi internazionali. La peste può esser letta in mille modi ed è bello, attraverso i classici, raccontare noi oggi”.
E pure Calandrino, lo scemo del paese, che solo Kim Rossi Stuart lo avrebbe saputo fare, che tutti gli fanno credere che una pietra nera lo ha reso invisibile, ma la delusione fa esplodere una rabbia che prima chissà dov’era. “In questo Calandrino dei Taviani – dice l’attore romano – c’è qualcosa di molto significativo dei vizi e delle problematiche umane, quella stoltezza, quella superficialità, quel servilismo, quella scarsa fiducia in se stessi, dietro i quali spesso cova qualcosa di molto più infernale e bestiale” (guarda il video).
E anche Federico, uguale a Josafat Vagni, che ama tanto Giovanna che pare Jasmine Trinca, che ha un figlio malato che si fissa con il suo falcone, tutto ciò che gli resta dopo aver sperperato ogni suo bene per stare con lei senza riuscire a starci e alla fine sacrifica pure l’unico amico della sua vita, per lei, e solo per lei. “Boccaccio è un classico che non passa mai – dice la Trinca – che può essere letto oggi e potrà essere letto anche fra cent’anni. Questa idea di mondo che continua a riproporsi, e la peste di adesso che però non è un cataclisma che arriva, ma una peste di stallo, di un mondo dove stiamo fermi, in questa idea di collettivo, di unione di ragazzi che si incontrano per ridare importanza alla parola”.