Da Roma a Roma. Per iniziare la terza vita, come ama dire Zio Rock. Dopo il malore dello scorso ottobre che lo ha colpito proprio durante un concerto nella Capitale cui è seguita una delicata operazione al cuore, Omar Pedrini è tornato a regalare emozioni, ad accarezzare gli animi, lasciando vibrare nell’aria solo il suono della voce e della sua chitarra. E chissà se per dissacrare la paura o magari per sfidarla, il cantautore bresciano ha scelto proprio un palcoscenico capitolino, quello dell’Asino Che Vola, per partire con un mini tour nei club, accompagnato sul palco dalla chitarra di Marco Grasselli, che stasera, mercoledì 5 marzo, lo porta a Salerno, domani al Barrio di Napoli, il 7 marzo al Cena con l’Artista di Fontanelice, vicino Bologna e il 13 marzo al 75Beat di Milano. Poi, la ciliegina sulla torta a fine marzo, anzi due, oltremanica: un concerto a Londra e un’intervista alla BBC.
L’abbiamo incontrato subito dopo l’esibizione romana di Unplugged. Tra musica e poesia, stretto nell’abbraccio della sua gente, felice per l’amico ritrovato. Che libera tutta la sua gioia. “Mi sono arrivate delle energie da tante persone perché è stato davvero un mezzo miracolo. Ancora si chiedono come sia stato possibile operare una persona al cuore per tre volte, nel mondo è molto raro. E io ne sono uscito indenne. Ero sereno, nonostante sapessi di avere soltanto il 20 per cento di possibilità”.
Omar, non è passato poi molto tempo da quell’ottobre 2014, dal concerto a Roma. In realtà quanta strada senti di aver percorso?
È stato un viaggio lunghissimo, ho fatto il giro del mondo e sono tornato a Roma. All’inizio ero paralizzato, credo si sia sentito. La prima canzone non riuscivo a cantarla. Dovevo fare Via Padana Superiore, invece sono partito con un brano non mio perché ero troppo coinvolto. Mi sono detto: faccio una cover di Paul Weller per scaldare il pubblico e per buttare fuori il sovraccarico di energia che ho”.
Quando ero bambino le mie maestre dicevano a mia mamma che non avevo paura di niente. Per me non ho mai avuto paura, sono sempre stato impavido, ho paura per gli altri, per i miei figli, per mia moglie.
Per ricominciare a cantare hai scelto una versione di live intimisti, una dimensione teatrale a te cara
Mi piace molto, ogni tre anni, più o meno, faccio una tournée a teatro. Come ho fatto nel 2013 con la piece su John Belushi con Nicola Nocella che ha avuto un grande successo. Infatti ti confesso che a fine tour, a settembre, voglio provare a fare qualcosa a teatro. Ho già in mente un progetto. Non ti posso dire nulla perché non ho scelto ancora il mio partner, però voglio fare un lavoro sui testi delle canzoni più belle, questa è l’idea. E dei duetti teatrali con un attore bravo, io che sono passionale.
Ma prima di pensare al teatro, hai in serbo a fine marzo due appuntamenti oltremanica da far tremare i polsi. Ed è proprio il caso di chiederti, prendendo a prestito il tuo ultimo album, ma che ci vai a fare a Londra?
Ci torno il 27 per il concerto al Water Rats, locale storico. Ma la cosa bella è che non faccio un concerto per gli italiani, ma suono nella serata per l’etichetta che mi sta seguendo, la Ignition, con due suoi gruppi, i Proud Mary e i Folks, quindi è una cosa per il pubblico inglese. Una bella soddisfazione.
Poi il giorno dopo, ti intervisterà la BBC. E che gli racconti?
La domanda te la faccio io a te: ma che cavolo mi chiederanno, sono terrorizzato. Mi prenderanno in giro, mi prenderanno seriamente. Ho questa paranoia. Un italiano che va a fare rock a casa loro, è come un eschimese che viene all’Olimpico a palleggiare.
In questo periodo che stai ascoltando? Hai scoperto qualcosa di nuovo?
Mi piacciono molto i The National, li dovevo intervistare per il mio programma su Sky Arte, poi invece ho optato per i Franz Ferdinand. Mi piacciono anche gli Editors e gli Interpol. Ma in questo momento ho un ritorno di fiamma per la scena di Manchester degli anni ottanta: sono andato a riprendermi gli Smiths, riscoprendo delle sfumature che non avevo colto, come succede con i grandi film che rivedi. E poi sto ascoltando molto gli Stone Roses, li trovo attualissimi.
Ti sei portato un libro in tour?
Si, me l’ero portato anche qui. Volevo leggerlo ma ho visto che il concerto piano piano si trasformava in una festa e non volevo appesantirla. Avevo pronto un passo, di solito leggo e recito, questo scrivilo minuscolo, delle poesie che porto in giro con me da vent’anni: Majakovskij, Pasolini, Neruda. Recentemente mi sto interessando molto alla Szymborska e Kavafis. Ma questo non è un periodo per la poesia, per le emozioni. Voglio dirigermi verso l’informazione perché è un periodo drammatico e pericoloso. È meglio l’impegno adesso rispetto la lirica, il sentimento. E per questo sto leggendo tutti i frammenti di Baumann che analizza la realtà in un maniera spietata, cinica e reale che dovrebbe aiutare tutti a rendersene conto. Ahimè, come accadde durante l’invasione nazista: non c’è tempo per la poesia. Bisogna pensare all’impegno e restare informati.
E magari, aggiungiamo noi, volare nel pianeta blu, mano nella mano, con Omar Pedrini.