Un film diviso in due quello di Paolo Sorrentino scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar. È stata la mano di Dio, già Leone d’Argento a Venezia 78 dove è stato accompagnato da regista e cast, in sala da mercoledì 24 novembre – a un anno quasi esatto dalla morte di Maradona – e su Netflix dal 15 dicembre, è come se avesse un primo e un secondo tempo, come i film che vedevamo al cinema tanti anni fa. Il primo tempo è allegro, divertente, esilarante persino, con il suo affresco familiare e tutto napoletano fatto di tavolate e chiacchiericci, di personaggi quasi felliniani come la parente grassa che porta a casa il fidanzato brutto e claudicante (e non solo), o la prozia cattiva che non le puoi dire niente che ti manda a fanculo e tutti gli altri a riderci sopra – peraltro magistralmente interpretata da Dora Romano – il matto del villaggio (Lino Musella), il santo in carrozza (Enzo De Caro), le imprecazioni dello zio Alfredo (Renato Carpentieri) e l’attesa a Napoli del Pibe de Oro.
Tutto il cast è perfetto e incastonato ad arte in questo film che per metà si fa commedia corale e a tratti grottesca, e che è evidentemente il più autobiografico, intimo e “doloroso” – come lui stesso l’ha definito – del regista partenopeo. Dalla bellissima zia pazza meravigliosamente interpretata da una Luisa Ranieri in stato di grazia di cui l’adolescente Fabietto (Filippo Scotti) si innamora inevitabilmente e perdutamente – anche se tra una notte d’amore con lei e Maradona al Napoli sceglierebbe comunque la seconda possibilità – con un marito (Massimiliano Gallo) che rende folle, a sua volta, di gelosia; a un Toni Servillo sempre impeccabile e vero, qui nel ruolo di suo padre, marito innamorato eppure patologicamente infedele a sua madre, che è Teresa Saponangelo, donna allegra che ama gli scherzi e la giocoleria e che lo caccia e lo ripiglia, in un gioco di cuore in cui resta sempre sconfitta, pur vincendo alla grande, se così vogliamo interpretare il finale di mezzo, in cui i due se ne vanno romanticamente insieme.
Ed è qui che le luci potrebbero accendersi in sala per una manciata di minuti, il tempo di cambiare il rullo della storia e della sua atmosfera. In È stata la mano di Dio Paolo Sorrentino scarica e narra tutto il suo dolore per una perdita appesantita da un insensato senso di colpa, un film catartico, terapeutico, che ci regala, dopo l’intervallo che non c’è, una velata tristezza che ci spiazza ma che tuttavia non ci sorprende. Come quella dell’aristocratica baronessa Focale del piano di sopra (Betti Pedrazzi) e il suo compito importante che assolve con la massima serietà, quello di mostrare il futuro a un ragazzo convinto che la sua vita sia finita. Così il secondo tempo di È stata la mano di Dio ci mostra la sua solitudine di ragazzo, la sua Napoli malinconica e dolcissima come quella di Pino Daniele che la canta nel momento più giusto che ci sia, e il suo bisogno di fare cinema per raccontare qualcosa, e per buttarci dentro anche quel dolore, come gli grida di fare il suo mentore Antonio Capuano nel ruolo di se stesso. Perché il cinema salva, proprio come la mano di Dio.
Ph Gianni Fiorito