Elio Germano è Bruno in Favolacce, opera seconda di Fabio e Damiano D’Innocenzo da lunedì 11 maggio su Sky Primafila Premiere, TimVision, Chili, Google Play, Infinity, CG Digital e Rakuten TV, Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura a Berlino dove Elio Germano ha ricevuto lo stesso premio come miglior attore per Volevo nascondermi di Giorgio Diritti. Bruno di Favolacce è un padre di famiglia, sposato con Dalila (Barbara Chichiarelli), due figli che si chiamano Dennis e Alessia (Tommaso Di Cola e Giulietta Rebeggiani), obbedienti, rispettosi, con pagelle da mostrare e leggere ad alta voce quando vengono a cena amici e vicini, tutti 10. Mai potresti immaginare… Vivono nella periferia romana, quella sud dove ci sono le villette a schiera. Bruno non è né ricco né povero, ma certo frustrato, e rabbioso dentro. Ne abbiamo parlato direttamente con Elio Germano.
Bruno è un padre di famiglia, una di quelle che quando accade qualcosa di brutto viene con stupore definita dai vicini normale, con i figli modello, bravi a scuola… Qual è invece secondo te la sua colpa?
Innanzi tutto penso che il concetto di colpa, inteso come individuare un colpevole, sia qualcosa che serva a noi, a sentirci che i colpevoli non siamo noi, come diceva De André, ad assolverci in qualche modo, e credo sia un’operazione che in questo caso non debba essere fatta. Quando parli dei vicini che definiscono la sua famiglia normale, è in quella parola normale che risiede tutta l’inquietudine di quei personaggi. Cioè sono e siamo noi, immersi in questo mondo di rappresentazioni dove la cosa più grave di tutte è che non ci facciamo più domande, nessuno si interroga, durante la vita, sul senso di ciò che sta facendo. Quindi non so quanto lo facciano i genitori, probabilmente zero, e così i bimbi ma forse perché sono gli unici che possono e devono permettersi di non farlo. Perché è grave quando accade che dei bambini debbano farsi delle domande più grandi di loro come in alcune zone del mondo dove non si sta così bene come si sta qua. È come se si camminasse in questa rappresentazione, tutti a fare il proprio ruolo senza domandarsi più perché lo sta facendo, e penso che questo sia il virus che ci ha contagiato in questa parte di storia dell’umanità.
I bambini di Favolacce, soprattutto quelli di Bruno e Dalila, sono bravi a scuola, silenziosi e obbedienti, una rassegnazione apparente che ritroviamo anche in qualche modo nell’epilogo finale, cosa ne pensi?
È proprio questa loro perfezione, questa loro diligenza che nasconde l’inquietudine, perché basta corrispondere ad alcune regole e va tutto bene. Sono perfetti, ma secondo quali regole e quali criteri e strutture? Secondo quelle di questa competizione che si esaurisce nella dimostrazione di alcune cose, per cui i voti sono il simbolo perfetto. Stiamo tutti a farci votare in continuazione: guarda Facebook, è tutto un mi piace, ed è così anche nei rapporti umani ormai, una malattia comune per cui che se abbiamo tanti like siamo perfetti e i migliori di tutti, ma in effetti poi non è così. Credo che sia proprio quella la chiave di tutto.
Come ti sei trovato sul set e con il resto del cast scelto direttamente dai due registi?
È stato molti appagante trovarsi e confrontarsi con attori che, ognuno con la propria esperienza, hanno questa qualità, questo amore, questa sincerità… Si trattava per tutti noi di vivere delle cose e non di cercare di riprodurle o di inseguire delle performance per farci dire quanto siamo bravi, ma cercare il più possibile di restare immersi in ciò che di volta in volta dovevamo raccontare, come di solito viene fatto con i bambini che, in questo caso, erano proprio dei nostri colleghi con quella loro professionalità incredibile e, per quanto mi riguarda, anche spaventosa. Essere qualcosa, e non riprodurlo, ha facilitato tutti noi anche come forma di ritorno personale.
Nessuno del cast ha una parte temporalmente più lunga degli altri, è difficile individuale un protagonista…
In realtà ci siamo sentiti tutti protagonisti, dovevamo essere quelle persone, non ci interessava sapere dov’era la macchina da presa in quel momento, che cosa si decideva di inquadrare, quanta parte di ciò che abbiamo vissuto sul set sarebbe poi andata a finire nel montaggio. Il vero piacere per me è proprio in questo modo di lavorare e non nel pensare che avrei fatto una buona performance, piuttosto mi piaceva questo grande regalo di poter andare a lavorare sperimentando la libertà e questa mancanza di presunzione nel voler essere al di sopra del racconto, tanto da essere in grado, con qualche pennellata, di scrivere un personaggio come fanno i grandi attori. Noi invece siamo scivolati dentro le cose pensando il meno possibile a ciò che stavamo facendo.
Favolacce arriva on demand causa Coronavirus e quindi sale chiude. Eppure i set stanno riaprendo, cosa ne pensi?
Io credo che dovremmo aver imparato delle cose con questa pandemia, innanzi tutto cosa vuol dire fare un mestiere come il nostro e cioè cosa vuol dire stare dei mesi a casa senza nessuna possibilità di visione futura. Questa è una cosa che agli artisti, attori e musicisti capita molto spesso anche senza il virus e magari non hanno tutti la fortuna di avere una sicurezza economica come quella che è capitata a me in questo momento, che mi posso permettere anche di non lavorare, o comunque stare fermo è una possibilità piuttosto che una costrizione. Per molte altre persone però non è così. Il nostro settore è già tra i più fragili perché non c’è coesione, c’è una grandissima competizione trasversale, non c’è una tutela e gli attori vengono presi per il collo alla minor paga e a qualsiasi condizione. Non c’è nessun protocollo in questo caso che possa salvarli anche perché non si può pensare di fare un film con mascherine e guanti o di metterli e toglierli ad ogni ciak e pensare che questo ci metta al sicuro dal Coronavirus. Quello che sta succedendo, come in tanti altri comparti lavorativi, è che non facciamo tesoro degli insegnamenti che dovrebbe averci regalato la pandemia e quindi a pagare saranno come al solito le persone più fragili.
In che modo?
Perché qualora i set riapriranno, andranno a lavorare solo le persone che non possono permettersi di dire di no, senza nessuna garanzia, con questa infamia, per quanto mi riguarda, che è quella dell’autocertificazione, come nelle fabbriche e così sui set, che poi non sono che posti di lavoro come un cantiere qualsiasi, dove ognuno con la propria professionalità fa il suo lavoro. Credo quindi che bisogna fare molta attenzione perché come al solito ci rimetterà le categoria più fragile, è inevitabile. Io capisco l’urgenza di ripartire, che viene soprattutto dall’alto, ma mi piacerebbe che venga riconosciuta a livello istituzionale non solo una compensazione per le industrie e per le fabbriche, ma anche per i lavoratori come noi che non siamo tracciabili, non per nostra volontà, ma perché non siamo inseriti in nessun tipo di inquadramento per quanto riguarda il nostro mestiere.