Fanny Ben-Ami è una donna ebrea di 86 anni, vive a Tel Aviv, è nonna, e ai suoi nipoti ha una bellissima storia da raccontare: la sua, sulla quale ha già scritto un libro. E deve aver pensato che fosse una storia davvero bellissima da farne un film la regista francese Lola Doillon che è andata personalmente a trovarla in Israele perché “avevo bisogno di immergermi nel suo passato e nei suoi ricordi” spiega, per poi renderla protagonista de Il viaggio di Fanny, in sala con Lucky Red il 26 e 27 gennaio in occasione della Giornata della Memoria, una delle tante storie incredibili verificatesi nell’ambito di quella grande storia terribile che è stata la Seconda Guerra mondiale. Nel film però la guerra non si vede, volutamente lasciata fuori campo dalla regista per concentrarsi sui bambini, se non, appunto, negli sguardi e nelle parole dei suoi piccoli protagonisti.
Fanny (Leonie Souchaud) ha 13 anni, è tedesca ma con la famiglia si è rifugiata in Francia. Poi il padre viene arrestato e la madre, affinché almeno le figlie si salvino dalla persecuzione razziale dei tedeschi che hanno occupato il paese, manda lei e le sue due sorelline in un rifugio al castello di Chaumont, un posto che fa parte di un’organizzazione chiamata OSE dedita ad accogliere i minorenni ebrei i cui genitori o sono in guerra o sono già stati deportati nei campi di concentramento, e dove i bambini vengono educati ad essere responsabili di se stessi, indipendenti e autosufficienti. Poi però controlli e rastrellamenti si fanno sempre più frequenti e scrupolosi, così “tu ha la testa dura ed è per questo che ce la farai” le dice Madam Forman (Cecile De France) che l’accompagna al treno, affidandole le sorelle e un gruppetto di ragazzini, anche loro ospiti di Chaumont, che Fanny dovrà portare, sani e salvi, fino in Svizzera dove sarebbero stati accolti e salvati a patto che fossero soli. “Possiamo contare solo su di noi, ma siamo furbi e siamo tanti” dice la piccola eroina ai suoi compagni d’avventura. E proprio di avventura sarà il suo viaggio nel corso del quale i nostri vinceranno il freddo, la paura e la fame, scaldandosi e sostenendosi con l’amicizia e la solidarietà.
“Volevo raccontare la storia di chi è costretto a crescere velocemente – spiega Lola Doillon – e il cuore del film è costituito proprio dal passaggio dall’infanzia all’adolescenza e dalle esperienze emotive di questi giovani eroi: l’angoscia derivante dalla separazione, la paura dell’ignoto, dell’oblio, al quale Fanny si oppone usando una macchina fotografica, della morte, ma anche dalla loro energia positiva, dal loro coraggio e dalla loro perseveranza”. “Desidero che il mio messaggio venga compreso – fa eco la vera Fanny – affinché alcune cose non si ripetano. Viviamo in un’epoca molto fragile, da ogni parte si levano voci che ricordano moltissimo quelle che si sentivano allora. Questo è molto pericoloso, anche per coloro che non sono ebrei. Perché dopo gli ebrei, andranno in cerca di altri bersagli e la cosa ci riguarda tutti”.