Raccontare la guerra senza mostrarla. Raccontare il dolore attraverso chi lo patisce. Gianfranco Rosi gira il suo Notturno – presentato ieri in anteprima mondiale a Venezia 77 dove è in corsa per il Leone d’Oro e da oggi in sala – tra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano per tre anni, ma il tempo si perde e anche lo spazio, inteso come terra e confini, scompare in un dramma che è più grande di qualunque collocazione, ed è soltanto tragicamente umano. La guerra si percepisce con le raffiche lontane e i fuochi, ad ogni istante, si vede nelle trincee vuote e le cataste di bombe, nelle celle di tortura abbandonate dove una madre piange suo figlio: “ti percepisco – canta nella sua nenia funebre – su queste mura, in questa prigione dove ti hanno torturato e ucciso, figlio mio, sento il tuo sangue…”.
Quella di Gianfranco Rosi è una “trasformazione della realtà usando il linguaggio del cinema ma avendo davanti l’autorità del reale” spiega lui stesso in conferenza stampa. Un film che “inizia dove finisce il reportage e il titolone del giornale” volto a “distruggere i confini fisici in un unico luogo mentale dove tutte le storie si potessero unire in una direzione quasi astratta e di trasformazione della realtà”. Ricorda poi Rosi quei confini “tracciati nel 1916 dalle potenze coloniali senza considerare cultura, radici, etnia dei popoli che vivevano liberi”.
I conflitti nel martoriato Medio Oriente hanno dunque origini storiche e stupide. Notturno non fa che mostrarne le conseguenze sulle persone e l’impatto lacerante sulla loro vita e sulla loro morte attraverso una rappresentazione quasi teatrale, rubata dal piccolo laboratorio scenico di un manicomio. Ad andare in scena sul pericolante palcoscenico mediorientale sono la vita e la quotidianità delle persone sopravvissute ma distrutte da guerre e battaglie civili, dittature e invasioni, dalla follia delirante e sanguinosa dell’Isis, tutto ciò deforma il canto delle madri; annienta il riso dei bambini che hanno visto cose che resteranno dentro di loro per sempre, cose che disegnano e balbettano nel mostrarle, non dormono e hanno paura, sempre; spezza il legame tra madre figlia relegandolo a uno scambio unidirezionale di strazianti messaggi vocali da una prigionia forzata; relega a una vita di mimetiche e fucili le donne soldato; annienta l’adolescenza di un ragazzo costretto a lavorare di notte per sfamare la famiglia, lo svegliano mentre i suoi fratelli dormono in terra, e lui va nella palude che non è ancora giorno ad aiutare i cacciatori, Alì si chiama, il preferito di Gianfranco Rosi che sul finire gli dedica un primo piano, rarissimo per il suo stile, pregno di significato. Eppure, nonostante i soldati e i terroristi, le bombe e gli spari, qualcuno ancora se ne va in giro cantando e lodando il suo Dio. Ecco il cast di Notturno, persone, non personaggi, distanti tra loro con le loro storie e le loro vite impattate dalla guerra, una rappresentazione triste e vera che tocca il cuore e spera nell’empatia, così com’era stato con Fuocoammare a Lampedusa, dalla Sicilia al Medioriente. Ecco Gianfranco Rosi in conferenza stampa: