Senza lasciare traccia, videointervista a Michele Riondino: sono una vittima che diventa carnefice

di Patrizia Simonetti

Può un male crudele e subdolo come il cancro nascere da una sofferenza del passato come un verme da una mela marcia? Bruno

è un ragazzino quando entra in una fornace per sentire il caldo che fa, gioca con una piccola amica, ha una benda sugli occhi, ma dentro non c’è soltanto il fuoco. Senza lasciare traccia, opera prima di Gianclaudio Cappai, in sala da oggi, giovedì 14 aprile dopo l’anteprima al Bif&st 2016 nella sezione ItaliaFilmFest/Nuove Proposte, tra metafore e viaggi nei meandri dell’intimo dei tre personaggi, racconta un passato dimenticato, ma solo apparentemente. Bruno (Michele Riondino) ama i suoi cani e la musica degli Smiths e di Lou Reed, ma i segni sulla pelle e un tumore nato dalla sua rabbia covata per anni e cresciutogli dentro come “un intruso che ti entra in casa” dice, non gli permettono di dimenticare. Nessuno sa di quella storia, neanche sua moglie, che fino ad allora ignora anche la gravità della sua malattia. Ma siccome la vita è fatta di cerchi che si aprono e che ad un certo punto devono anche chiudersi, un caso, come un’occasione di lavoro per Elena che fa la restauratrice, lo riporta proprio lì, a Ponte Nuovo, dove ha vissuto da bambino e dove c’è ancora quella fornace che non è più attiva ma conserva al suo interno le persone di allora. L’uomo (Vitaliano Trevisan) e sua figlia Vera (Elena Radonicich, sul grande schermo anche con Banat – Il viaggio, qui la nostra videointervista) però non lo riconoscono, fino a che quella rabbia e quell’intruso che ha dentro non esplodono. Per fortuna Bruno torna in sé prima di diventare altro. Nel cast anche Giordano De Plano.

“Durante un viaggio una mia amica malata di cancro mi confidò, ma era come se lo ripetesse a se stessa, come quella malattia fosse legata nella sua percezione ad un fatto traumatico della sua infanzia – racconta Gianclaudio Cappai – Le chiesi di cosa si trattasse, ma non volle rivelarmelo. Mi sono chiesto quali potessero essere le conseguenze, i sedimenti lasciati da quel trauma. La risposta che mi sono dato è che la prima emozione che viene fuori da un vissuto del genere è la rabbia: c’è sempre bisogno di un colpevole, di un capro espiatorio su cui riversare la violenza che scorre sotto la superficie del nostro vivere civile originata a sua volta da altra violenza. Il cancro che affligge Bruno – continua il regista – è appunto lo specchio di un male più oscuro, fisico ma anche mentale, che lo corrode lentamente e in segreto. Tutti i personaggi del film lottano per liberarsi da ciò che ha segnato per sempre la loro vita, per quanto abbiano cercato di dominarlo, di nasconderlo o di negarlo: l’anima di questa storia è un viaggio dentro la zona segreta che abita tutti noi, con cui spesso evitiamo di fare i conti, che preferiamo non guardare pur sapendo che esiste”. Ne abbiamo parlato con il protagonista ed ecco la nostra videointervista a Michele Riondino: