Nel gennaio del 1882 un ragazzo di 29 anni incontra una giovane donna: ha una figlia di cinque anni, è di nuovo incinta, beve e fa la prostituta. Non ha molto da offrirle, ma decide comunque di aiutarla prendendola con sé. Il ragazzo è un grande artista, anche se ancora non lo sa nessuno, e Sien, così lui la chiama, diventa la sua modella. Arte e amore spesso combaciano, così il ragazzo se ne innamora e vuole sposarla. Lo scrive anche al fratello che, nonostante non approvi, gli dà comunque una mano. Ma neanche un anno dopo, la ragazza riprende a prostituirsi e lui, deluso e addolorato, la lascia e se ne va. Lei si ucciderà 21 anni dopo. Lui 14 anni prima di lei. Quel ragazzo era Vincent Van Gogh e questa storia è raccontata nella mostra a lui dedicata a Palazzo Bonaparte, a Roma, dove resterà allestita fino al 7 maggio.
Sien la vediamo subito a inizio percorso, al primo piano dell’esposizione: di lei ci sono due disegni che Van Gogh ha intitolato The Great lady (La grande donna) e Sorrow (Tristezza), e dei dipinti che la ritraggono da sola e con i suoi figli. E ci sono anche alcune delle lettere inviate da Vincent a suo fratello minore Theo con il quale aveva intrapreso una fitta corrispondenza sin da quando aveva lasciato la casa natìa di Zundert per trasferirsi all’Aia a lavorare come commesso in una casa d’arte, lettere che sono, anch’esse, autentiche opere artistiche. Altri manoscritti e suggestive immagini di Vincent Van Gogh, suo padre, sua madre e Theo le troviamo nel grande pannello che riassume la sua breve storia dalla nascita alla morte, avvenuta il 27 luglio del 1890 in Francia, a Auvers-sur-Oise, dopo essersi esploso un colpo di rivoltella in pieno petto a soli 37 anni. Nel mezzo, una vita intensa, itinerante, pregna di dolore e frustrazione, solitudine ed emarginazione, malattia, viaggi, passione e follia, qui evocata e raccontata con la passione tipica dell’arte.
La mostra di Roma su Van Gogh raccoglie 50 sue opere provenienti dal prestigioso Museo Kröller Müller di Otterlo, in Olanda, realizzate in dieci anni, dal 1880 alla fine dei suoi giorni, ognuna legata al luogo e al vissuto dell’artista olandese nel momento della creazione e al suo relativo studio del dipingere, dal disegno al chiaroscuro, dal colore alla luce che diventerà luce a sua volta, all’espressività del tratto. La prima parte – che in apertura offre in omaggio anche una manciata di dipinti di altri artisti appartenenti alla collezione dello stesso Museo olandese – comincia con alcuni ritratti e paesaggi dai colori scuri, dipinti con il nero, il grigio, il marrone, e che, come fotografie del mondo rurale che in quegli anni più gli appartiene, ritraggono i lavoratori della terra, come i seminatori, i raccoglitori di patate, i boscaioli, le donne che lavorano in casa e nei campi, quelle di spalle, curve sulla neve che portano pesanti sacchi di carbone, contadine che lavano pentole, e anche i celebri mangiatori di patate.
Il colore arriverà lentamente durante il suo soggiorno in Francia. Nella sezione della mostra dedicata a Parigi troviamo il Van Gogh impressionista che punta a tonalità cromatiche più leggere e alla cura dei dettagli nei volti, soprattutto il suo. Ecco allora che nella sala ad esso interamente dedicata, quella dei Ricevimenti di Palazzo Bonaparte affrescata da Taddeo Kuntze, come sospeso, come arte nell’arte, ci imbattiamo nel suo celebre autoritratto del 1887: il volto di Vincent Van Gogh è voltato di tre quarti e guarda l’ammiratore che lo osserva, scatenando in lui, ve lo assicuro, una sensazione forte di empatia, un senso di condivisione di una tristezza rassegnata che da quegli occhi e da quei tratti emana, emozione pura. Ed è l’ultima opera della prima parte dell’esposizione.
Da qui si sale infatti al secondo piano e le pareti accolgono esplosioni cromatiche vive e intense, come la natura, viva e morta, protagonista delle sue opere a seguire: “Più divento brutto, vecchio, cattivo, malato e povero, più desidero riscattarmi facendo colori brillanti, ben accostati e splendenti” scrive Van Gogh alla sorella Willemien. C’è un sorta di rivisitazione assestata sulla sua nuova sperimentazione cromatica del Seminatore, e c’è, meraviglioso e pieno di luce, il Giardino dell’ospedale di San Remy dove Vincent è ricoverato, come se guardasse fuori dalla sua vita, da perdercisi dentro rincorrendo il pennello che spinge forte sulla tela. E, quasi ad avvertire che nulla è però cambiato nella sua anima triste e tormentata, il burrone e quel Vecchio disperato alle porte dell’eternità che strazia il cuore, curvo e arrendevole sotto il peso di tutti quegli anni sulle spalle che Vincent non proverà mai. Il ritratto è del 1890, l’anno della sua morte.
Prodotta da Arthemisia, realizzata in collaborazione con il Kröller Müller Museum di Otterlo e curata da Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti, la Mostra offre anche l’emozione di poter vedere e leggere, in enormi pannelli in divenire, alcuni manoscritti di Van Gogh, pensieri e riflessioni che trovano inchiostro e vita nelle già citate lettere al fratello Theo, come la consapevolezza di essere considerato dai più “un uomo eccentrico e sgradevole… l’infimo degli infimi” e della sua necessità di “mostrare cosa c’è nel cuore” di quest’uomo, con le sue opere. C’è anche un’installazione colorata e suggestiva: grandi pannelli in vetro rotondi in una piccola sala specchiata a riprodurre quasi magicamente alcune sue opere altrettanto magiche, come la notte stellata e i Girasoli. Ecco il nostro video della Mostra su Van Gogh a Roma: